sabato 2 maggio 2015

Usi e costumi dei fiorentini (seconda parte)



I fiorentini pur essendo gente sobria , era anche di “molti costumi grossi e rudi”, come dicevano Giovanni Villani e Dante , si compiacessero in modo particolare degli spettacoli pubblici, risulta che quasi tutti gli storici ci hanno lasciato di cortei, mascherate, cerimonie, e gualdate, e dai numerosi ricordi che ancora sussistono , qua e là, per Firenze. . I fiorentini, avevano un indole gaia ed un temperamento artistico, che li portava a dilettarsi di tutte quelle manifestazioni nelle quali il brio popolano poteva unirsi ai vari aspetti della coreografia.

Da ricordarsi, sono certamente le feste fiorentine, delle quali vi è un prezioso volume di Pietro Gori, intitolato appunto : “le feste fiorentine”.
Una di queste feste, pubbliche finì in un orribile catastrofe, questa festa fu data nel emse di amggio del 1304 sul Ponte alla Carraia.

Come tutti i ponti della città anche questo ha la sua breve storia.
Anticamente fu denominato Carra o Carraia, da una porta che immetteva nel Borgo Parione. Fu edificato, parte in legname , parte in altro materiale, a spese dei frati umiliati che risiedevano in Borgognissanti. Il ponte fu costruito, per facilitare l’introduzione della lana che si alvorava nel rione, dove l’arte era stata introdotta dai frati stessi, circa uns ecolo prima.

Nel 1218 ne fu posta la prima pietra, e fu compiuto in due anni ad opera di un certo frate: Lapo.
Nel primo tempo tempo si chiamò ponte nuovo, per contrapposto all’altro: il vecchio, unico essitente sull’Arno.
La piena del del 1264, lo travolse del tutto, ma fu subito ricostruito da fra Sisto e fra Ristoro, eccellenti architetti. Anche questa volta fu edificato in legname, e fu proprio su questa seconda costruzione che si celebrò la festa tragica. Il ponte rimase saldo fino al 1333, quando la piena lo rovinò in modo spaventoso. Tornè a riedificarlo , una terza volta , fra Giovanni Ciampi, ma nn ebbe fortuna, perché un’altra piena considerevole quella del 1557, lo travolse in parte demolendone due arcate. L’Ammanati nel 1559, lo riparò, però rimase stretto e poco adatto al libero transito dei veicoli.
Fu poi nel 1867 che venne ampliato e munito di spalette metalliche come si può vedere oggi.

In tempi nn molto lontani, sulla collina , a settentrione del ponte, si erigeva una chiesetta dedicata a Sant’ Antonio, di spettanza della nobil famiglia Ricasoli, abbattuta questa fece costruire una sua residenza in prospetto al ponte nuovo, in modo che il palazzo avesse maggior risalto. Qualche anno fa, in quella che fu la residenza dei Ricasoli, vi furono in seguito, ospitati più volte sovrani stranieri.

Veniamo ora, alla narrazione della terribile festa dell’inferno. Gli abitanti di borgo San frediano , volendo gareggiare con quegli degli altri rioni , che già avevano organizzato feste e spettacoli in occasione del calendimaggio del 1304, ricorsero al famoso, Buffalmacco, celebre per le sue stramberie, affinchè ideasse per loro qualcosa di straordinario. Egli progettò di rappresentare nell’arno uno spettacolo dell’inferno , con macchine da incendiare e un gran numero di diavoli.

Giovanni Villani , riferì sobriamente , ma con la precisione che pregio nel suo stile, il fatale avvenimento:

“ In questo medesimo tempo che il cardinale di prato era a firenze, ed in amore del popoloe dei cittadini, sperando che mettesse pace fra loro. Per lo Calen di Maggio 1304, come al buon tempo passato del tranquillo e buono stato di Firenze si usavano le compagnie e brigate di sollazzi per la citta’. a gara l’una contro l’altra, ciascuno chi meglio sapea e potea: infra le altere , come per antico avean per costume . Quelli di borgo San Friano di fare più nuovi e diversi giochi, si mandava un bando per la terra che chiunque volesse saper novelle dell’altro mondo . Dovesse essere il dì di Calen di Maggio, sul ponte alla Carraia, e intorno all’Arno. E ornarono in Arno sopra le barche e navicelle con fecondi la somiglianza e figura dell’inferno, con fuochi e altre pene e martorì , con uomini contraffatti e demonia orribili, a vedere; e altri avevano figura di anime gnude, che parevano persone . E mettevangli in que diversi tormenti, grandissime grida e strida , e tempesta , la qual parea odiosa e spaventevole a udire e a vedere; e per nuovo gioco vi trasse a vedere molti cittadini. Il ponte alla carraia, il quale era allora di legno, da pila a pila, si caricò sì di gente che rovinò più parti e cadde con la gente, e vi morirono in molti, molti si fecero male, sì che il giuoco delle beffe e del terrore, avenne davvero , com’era il bando; molti per morte ci andarono a saper novelle dell’altro mondo con grande pianto e dolore di tutta la città, che ciascuno si credea di aver perduto figliulo e fratello. Giacchè siamo sullo storico fiume, si ricordi il di’ 10 gennaio 1490, ghiacciò l’Arno, che epr tre dì vi si fece la gara alla palla a calcio .

Un’altra enorme ghiacciata avenne il primo dicembre del 1540, essa durò diversi giorni, tanto che concesse ai fiorentini che il giorno del 13 dicembre, i giovani vi facessero il calcio.

Cinquantacinque anni dopo , “la storia del fiume che nasce in Falterona” registra una ghiacciata ancora più forte delle precedenti, che offe modo , di celebrrvi uan festa che , sarebbe stata grande e magnifica, nn sul ghiaccio ma sull’arena di qualche circo.

Il luogo destinato fu lo spazio tra ponte a Santa Trinita e quello della Carraia. Il corpo di guardia dove i cavalieri si abbigliavano e si disponevano erano gli archi del ponte a santa Trinita, coperti da tende.

Quando furono accomodati cominciarono la mpstra uscendo di sotto al primo arco verso Spirito con quest’ordine: andavano avanti sei tamburini e dopo di loro sei trombetti nobilmente vestiti, poi veniva un gran numero di vestiti da carnevale, e alla comica per correre un palio a piedi ignudi. Dietro questi veniva altro numero di vestiti a Ninfe sopra certe seggiole rase, alte circa un braccio, acconciativi a sedere con le gambe alte distese a maniera gottosi, che con due bastonetti appuntiti in mano si sospingevano avanti , sdrucciolavano in modo di storpiati, che faceva una bellissima e ridicola vista, il servirsi delle braccia e delle gambe per stare in una posizione così stravagante. E moltiplicava le risa, che nn ne potevano , o apevano fermarsi, senza saltar fuori della seggiola. E far sconcia, ma nn dogliosa caduta. Venivano in ultimo i signori apparecchiati per giostrare sopra certi carri bassi e lunghetti , che chaimavan slitte . Erano dsiegnate a modo di quadriglie antiche , al posto delle ruote avevano, come delle lame di rame per un facile sdrucciolo, ed erano tirate davanti a foggia di carrozze o di barchette con alzaio. Sopra la slitta era accomodata una sella che nn siv edeva , e sopra essa sedevano i cavalieri per potersi emglio valere della vita; talchè ella avea nell’andare, e del comodo di cavallo, di cocchio e di barca…Dopo avere rotto 15 o 20 lanciere uno fecero al fola, che riuscì molto bene.

Da qeusti sommari accenni si rileva l’indole fiorentina, propensa ai divertimenti, e se indaghiamo, un po’ più sottilmente attraverso i secoli , facilmente possiamo constatare come nn sia oggi diversa quella di seicento anni fa. Nella psicologia del nsotro popolo entra n gran parte l’elemento curiosità , contemprato da uno cettismo bonario, ond’è che qualla gran testa di Mr Arnet de Voltaire nn poteva meglio definire Firenze chiamandola l? Atene dell’Italia. Nn so se i gli ateniesi correrebbero oggidì aAlcibiade, per vedere il suoc ane con la coda tagliata.

Ma forse aveva ragione , il Niccheri poeta e letterato, disturnando all’improvviso con un suo compagno pistolere, che glia veva dato una battuta su la curiosità dei fiorentini, agrutamente , sebbene un po’ troppo malignamente , gli rispose con questa ottava .

Furon sempre così, che ci vuoi fare?
Gente curiosa e amica del diletto;
Nessuno al mondo li potrà cambiare,
E la curiosità nn è difetto.
E’ curioso chi ha voglia di imparare,
E chi un n’impara nn è mai perfetto,
Voi pistoleri siete poco avanti ,
Perché meno curiosi e più ignoranti

Nella Firenze antica nn mancarono certo: fasti , nefasti della moda
Quando per le vie del centro , nelle ore in cui vi era movimento di folla, più intenso. Nei vicoli e epr il corso passavano sciami femminili, con un infinita varietà dei colori ceh el donen moderne sfoggiavano dei loro abiti leggeri e succinti, nei cappellini elganti e nelle guarnizioni.
A tempo mio per veder tanta straordinarietà cosmica bisognava aspettare il carnevale. Si tanto al corso delle maschere si poteva assistere una simile esibizione di tinte che vanno da quelle dello spettro solare a tutte le loro possibili combinazioni.
Osservando questo spettacolo, più volte mi son chiesto che csa ne penserebbe un fiorentino del 1200, per esempio quel gentiluomo di Bellincion Berti. Dal quale discesero i conti Guidi, e che il capo della stirpe degli Alighieri, Messer Caccaiguida, ricorda al lontano nipote nel XV canto del paradiso, assicurandolo di verlo veduto “andar cinto di cuoio e d’osso” , mentre la donna sua si toglieva dallo specchio senza avere il volto pasticciato di balletti e di cipria. E’ ben vero che quello era il tempo in cui Firenze “ si stava in sobrietà e pudicità” e

Non avea catenella , nn corona
Non donne contigiate, nn cintura
Che fosse a veder più che la persona

Certo il Bellincione dovrebbe strabiliare se si pensa che a tempo suo la moda del vestire era di una semplicità e di un’uniformità assolute.

Allora i cittadini di Firenze, scrive giovanni Villani , vivevano sobri, e di grosse vivande, e con piccole spese, e di molti costumi grossi e rudi; e di grossi panni vestivano loro, e le loro donne. E molti portavano le pelli scoperte senza panno, con berette in capo, e tutti con usatti ( stivaletti grossi) in piede.

E le donne fiorentine co’ calzari senza ornamenti; e passavansi le maggiori di una gonnella di rosso scarlatto, cinta ivi su di uno scheggiale ( cintura con fibbia) all’antica, e un mantello foderato. Le donne comuni andavano, invece con un grosso panno di lana verde.

Un secolo dopo incominciò il lusso nel vestire e la leziosità negli ornamenti perché come dice, Macchiavelli “ gli uomini e le donne senza aver riguardo al vivere civile, o alcuna vergogna ; copiarono le foggie dei francesi venuti als eguito del Duca di Atene quando costui fu chiamato a difendee la città insediata dalle armi dei lucchesi”

Il Villani da fedele storico, ci dà questi particolari sulla moda del tempo: “ E nn è da lasciare di dar menzione di una sfoggiata mutazione di abito, che ci recarono di nuovo i Franceschi , che vennero al seguito del Duca di Firenze. Che colà dove anticamente il loro vestire era il più bello, nobile e onesto, che niuna altra nazione al mondo de’ togati romani ; così si vestivano i giovani una cotta o gennella corta e stretta , che nn si potea vestire senza l’aiuto d’altri, e una correggia come cinghia da cavallo con sfoggiata fibbia, e puntale, e con isfoggiata scarsella alla tedesca sopra il pettignone, e il cappuccio col battolo fino alla cintoia; e più che era , cappuccioe mantello con molti fregi e intagli; il becchetto del cappuccio lungo lungo fino a terra per avvolgere il capo per lo freddo e colle barbe lunghe per mostrarsi più fieri in arme. Icavalieri vestivano sorcotto ovvero guarnaccia stretta, ivi suso cinti, le punte di manicottoli lunghi fino a terra foderati di valo e die rmellini. Questa istranziata d’abito nn è bello, né onesto fu di presente presso giovani di firenze e per le donne giovanili disordinati manicotti.”

Più tardi, sulla prima metà del 500 la modo era ancora più evoluta.. un’altra efficace descrizione della maniera del vestire fiorentino fu la descrizione che fece Benedetto Varchi. Questa volta l’esempio venne da due cardinali: Giulio de’ Medici e Silvio Passerini.

“ l’abito de’ fiorentini, passato il diciottesimo anno è, la state quando vanno per la città, una veste di rascia nera, lunga fin quasi ai talloni, e a’ dottori ed altre personalità più gravi , senza quasi, soppannati di taffettà, davanti una striscia di tabè di colore nero separata, dinnanzi e ai lati , dove si cavavan fuori le braccia , ed incresputa da capo, tenuta ferma sotto la gola, da una forcella o da dei nastri, o passamani di di fuora, quale veste si chiama lucco, è di portatura comoda e leggiadra: il qual lucco i più nobili e più ricchi portano ancora il verno ma foderato, ma o foderato di pelli o soppannato di velluto, e di sotto chi porta un saio, e chi una semplice vesticciola di panno . In capo una berretta di panno nero, leggerissimamente soppannata con una piega ditro, che si alscia cadere in guisa , e si chiama beretta alla civile.

Il mantello è una veste lunga perlopiù infino al collo del piede, di colore ordinariamente nero, anorchè i ricchi e i nobili.
La notte nella quale si costuma andar fuori assai, s’usano in capo i tocchi, e in dosso chaimate la spagnola cioè con la cappuccia dietro. Chi la prota nche di giorno è reputato sciocco e uomo di cattiva vita. Chi cavalca, porta o cappa o gabbano, o di panno o di rascia e chi va in viaggio feltri: onde bisogna stare provveduto di tante maniere si spende assai nel vestire al che si aggiunge la domenica mattina, la camicia, che oggi usano increspate dal capo alle mani, tutti gli altri panni della settimana insino ai guanti, al cintolo ed alla scarsella si mutano”.

Gli abiti per le nozze e per le altre sollenità erano differenti al pari di quelli per la campagna, e quelli per il lutto. In questi casi si adoperavano panni neri: come ne fa ede il boccaccio nella sua novella Di Tedaldo degli Elisei, creduto morto.

Per il lusso delle donne convenne alle leggi epr frenarlo, tanto si faceva rovinoso per la pubblica economia. Però fu tempo perso, perché anche allora le donne ne sapevano una più del diavolo, e trovavano mille modi epr eludere i bandi e burlarsi dei giudici. Quanto racconta Franco Sacchetti, ne è la prova evidente, tanto più si tratta di un aneddoto del tempo in cui era egli rpiore della repubblica

Il giudice messer Amerigo degli amerighi fu chiamato dalla Signoria ad applicare con la massima severità la legge sugli abbigliamenti; ma per quanto facesse del suo meglio , poco o nulla concluse, ond’è che fu richiamato dai magistrati ed aspramente rimproverato della sua insufficenza.

Senza scomporsi egli rispose: “signori miei, io ho tutto il tempo della vita mia studiato per appartare ragione; e ora, qaund’io credea sapere qualche cosa, trovo ch’io so nulla; perpcchè cercando degli ornamenti divietati alle vostre donne , per gli ordini che mi avete dati, siffatti argomenti nn trovai mai ina lcuna legge , come sono quelli che elle fanno, e fra gli altri ve ne voglio nominare alcuni: E’ si trova una donna col becchetto frastagliato, avvolto sopra al cappuccio il notiaio dice : datemi il nome vostro, perocchè avete il becchetto intagliato: la buona donna piglia questo becchetto , che è appiccicato al cappuccio con uno spillo, e recaselo in mano, e dice: “ che egli è una ghirlanda. Ora vado più oltre trovo molti bottoni portar dinanzi; dicesi a quella che è trovata; questi bottoni voi nn potete portare e quella mi risponde: “messer si, posso , che qeusti nn son bottoni , ma sono coppelle , e se nn credete guardate , è che nn hanno picciuolo, e ancora niuno occhiello. Va il notaio all’altra che porta gli ermellini , e la vuole scrivere; la donna dice : nn scrivete no, che questi nn sono ermellini , anzi sono lattizi, dice il notaio: che cosa è questo lattizio? E la donna risponde : “ è una bestia
dice uno de signori,” noi abbiamo tolto a contender col muro. E il giudice ha ragione”.

Tanto eprchè il lettore ne abbia un’idea riporterò un frammentod elle leggi che disciplinavano, o meglio dovevano disciplinare il lusso femminile:
“niuna donna femmina, o fanciulla di qualunque stato o condizione sia, maritata o no, possa ardisca, ovvero presuma per alcun modo nella città , contado e distretto di firenze portare : perle, nacchere, o pietre preziose, o alcuna ragione di esse, o adosso , o in capo, o in qualche altra parte del corpo, né oziando sopra alcun vestiemnto, né sopra altra cosa che adosso portasse, né ancora alcun collare o fermaglio sopra o nel petto, come sopra è detto, d’oro o d’argento o indorati o argentati , o di perle e dia lcuna ragione di pietre preziose, ovvero di altre pietre di qualunque altra ragione, e di metalli eziando dissomigliano ai sopradetti”.

E così era stabilito che gli ornamenti di solo argento nn dovevano superare il peso di una libbra prmettendo in più solo una cintura d’argento di quindici once compresa la fibbia. Era proibito di portare più di due robbe o vestiti di seta in un medesimo tempo, né vestiemnti foderati di alcuna pelle domestica os elvatica, stole o frange per guarnizioni intagliate o fatte di pelli ecc..Era permesso portare solamente tre anelli in tutto. Ma nn potevano avere più di una sola perla o un’altra pietra preziosa

L’elenco delle proibizioni e delle restrizioni al lusso è così minuzioso che l’esporlo in dettaglio nn è possibile. Ne andavano esenti le donne de cavalieri , de dottori di legge e delle arti e medicina e le fanciulle minori di età di anni 10 , nonche le fanciulle femmine forestiere per un tempo di quattro mesi, trascorsi i quali cadevano sotto la sanzione del comune.

Una proibizione curiosa era quella cehs tabiliva nn potersi mandare alcun forziero, il quale si manda alle donne , ovvero fanciulle giurate o sposate per parole e pensieri futuri, colle gioie, altrimenti; ne eziando in altro modo di dare , ovvero donare alle predette verun collare , o fermaglio, o ghirlanda, brocchetta di perle e d’oro

Ma come ho accennato, la difficoltà dell’applicazione e la furberia delle donne , rese sempre poco efficace questa legislazione finchè ascesi i medici al principato, nn ebbe più nessun vigore.

Di secolo in secolo si procede rapidamente sulla via del lusso e della raffinatezza. Quello che fosse il settecento tutti sanno. E’ ils ecolo delle eleganze per eccelenza, della cipria, delle parucche, del guardi fante e de cavalier…serventi. Un’altra satira di Lodovico Adimari, ci dà una desrizione gustosa della toelette di una nobil dama.

Vedi la nobil donna, i lisci a soma
Stender sul volto , ed in ritorte anella,
O in vaghe trecce scompartir la chioma
Reder con sottil vetro ogni novella
Lanugine del volto , e il pel nn scabro,
Per comparir più morbidetta e bella
Col minio stemperato, e col cinabro
Far che rubin dell’iride celeste
Sembri in fulgor l’estremità del labro
Con ricche gemme in ricchi drappi inteste
Cingersi il petto, e a guisa di lumaca
Portar la casa addosso in una veste

Pur troppo la smania del lusso donnesco fu in passato come ai giorni presenti causa di molte rovine
Quest’austera probità che contraddistingueva i fiorentini , la più grande parte emrcanti decadde.
Il fallimento commerciale, nonostante il rigore e lo sprezzo quali lo si circondava, cominciò a prender piede; tanto che il lippi, nel suo poemetto giocoso , “ il mal gentile” potè ragionare e inveire contro le moglie distruttrici delle fortune maritari con la famosa terzina:

Donne, che feron già per ambizione
D’apparir girellate e luccicanti,
Dare il c….o al marito in su lastrone

Per chi l’ignorasse dirò che, appunto per eccitare orrore del fallimento , la repubblica aveva statuito, seguendo l’esempio della città di lione, che chiunque fallisse fosse condannato: ostendendo pudenda percutiendo lapidem c…o

Il che in lingua povera , significa che il fallito doveva essere tratto nella pubblica piazza a battere parti posteriori nude, su di un’apposita alstra.
In firenze, il luogo di questo ignominoso gastigo era, sotto le logge di mercato nuovo, dove ancora , proprio nel loro centro, un lastrone di marmo bianco, a forma di ruota con raggi neri. Era l’antico segno del posto dove, in tempo di pace , sostava il caroccio. Certamente questa località, fu scelta perché era quella frequentatissima dai mercanti i quali vi si riunivano giornalmente per trattare i loro affari.

Il poco decente supplizio fu abbolito sotto la dominazione medicea; ma se fosse stato mantenuto fino ai giorni nostri, c’è da ritenere che del segno che ricorda il glorioso carro di guerra da parecchio tempo nn esisterebbe più nessuna traccia!

Usi e costumi dei fiorentini (prima parte )




Lo scrittore Franco Sacchetti, vissuto nel XIV secolo, nelle sue 300 novelle , riportò diversi vivaci episodi di come i fiorentini onoravano la tavola, e il buon vino.

Vi era fra l’altro, ilc attivo gusto, da parte dei fiorentini di rintanarsi nei sotteranei , per compiere una delle funzioni più piacevoli del vivere: mangiare. (chissà se anche a loro paicevano i panini con senape wustel , a seguito una bella birra) . Los tesso scrittore a detta di molti dove essere egli stesso un buon tempone che si compiaceva della buona tavola e naturalmente , del buon vino. Si sa, specialmente in toscana, nn esiste un appettitosa bruschetta, se nn è accompagnata da un genuino e buon bicchiere di chianti.

Nelle sue narrazioni , parla spesso di allegre brigate che mangiano bevono nelle spaziose osterie , o ancora più spesso all’aperto, ( negli orti sotto folti eprgolati , dove il profumo delle vivante e del buon vino, si mescola a quello della campagna verdeggiante, e eprchè no, a profumi di uomini e donne che sapevano ancora di acqua e sapone.
Chissà che cosa penserebbe se potesse oggi vedere , le moderne portate delle vivande, la misura delle nostre porzioni, estratte da un raffinato menù, con commensali che haimè, poco ormai hanno del sapore della verdeggiante campagna toscana.

Se ritornasse al mondo e si trovasse ad ordinare secondo ilo suo gusto, certamente chiederebbe quello che era il suo piatto preferito: un’oca ripiena di agli.
Questo credo basti per capire la differenza fra la cucina di oggi e quella di seicento anni fa
Vediamo comunque di soddisfare la curiosità, che credo a questo punto nasca spontanea, sul conoscere come mangiavano i nostri antichi predecessori.

Sempre stando al Sacchetti , in una succulenta cena furono serviti : un ventre di vitella, starne lesse e sardelle in umido.
Ad un altro festino si servì: coniglio in crosta e carote indolcite. Il tacchino era gradito al pari dell’oca, e veniva farcito con marroni, e come contorno, era assai gradito, l’aglio, sia esso cotto che crudo.
E tutta qeusta roba veniva mangiata con le mani. E’ noto infatti che le forchette ebbero la loro nascita: due secoli dopo.
Ma ciò che più sorprende chi fa ricerche nell’argomento del galateo, nn è tanto il rilevare la differenza di pietanze, quanto il constatare come in fatto di mangiare vi fosse una legistazione molto ferrea, e meticolosa.

Firenze, dentro alc erchia antica,
Ond’ella toglie ancora e terza e nona
Si stava in pace sobria e pudica

A mantenere questa parsimonia contribuivano provvedevano le leggi. I signori priori di libertà assieme al Gonfaloniere, sbabilivano ciò che si doveva mangiare. Tutto era stabilito e guai a chi manguiava un piatto in più!

Meno male che allora i magistrati nn facevano le leggi solo per gli altri, e di conseguenza erano i primi a dare il buon esempio. Un eccezione per la mensa della signoria,nella quale si poteva mangiare come e qaunto si voleva. Quando però vi fossero state occasioni speciali, e si ricorreva a servire , ghiottoneriem, nn necessarie, esse dovevano essere usate in quantità fisse e prestabilite.

Logico che i privati in casa loro, coi conviventi dividevano le spese, e potevano mangiare quanto volevano nel caso vi fossero estranei nn era permesso usare più di due vivande: lesso e arrosto.
E quando fosse stato giorno di magro due vivande di pesce.
Per il lesso venivano usati tre specie di carni, e l’arrosto poteva essere composto da quattro specie di animali , resta inteso che arrosto e lesso venivano serviti in un medesimo piatto.
Del pesce se ne potevano fare due vivande , cucinandolo in diversi modi, ma usando però la stessa specie di pesce.
Ogni trasgressione a tali disposizioni era punita con una multa pari a 25 fiorini d’oro. A questa multa erano condannati; commensali, cuochi e servitori.

Questo regime così rigido, venne posto in essere fino a che i costumi nn cominciarono a modificarsi radicalmente. Però la carettistica dei fiorentini di mantenersi sobri e parsimoniosi, continuò a esistere anche dopo il trecento. . Le osterie si trasformarono poi in caffè, che venenro frequentati da ogni tipo ceto sociale. Si stabilì che in tali luoghi nn venissero serviti piatti ghiotti e invitanti , per nn allettare la gente a mangiare fuori casa.
A questo proposito è famosa nel suo latino, una delle ordinaze che stabisce potersi imbandire nei pubblici esercizi:
Torllos, fegatellos, milzas, vel pullos, vel aliquod gens avidam, vel aliqua alias pertinentia ad gulutatem sed ghiottoneriam
Alla sobrietà , fiorentina, trecetesca , che si cibava prevalentemente di : legumi, erbaggi, e frutta
“ fiorentin mangia fagiuoli” mantenyuta, anche col freno delle leggi, successe il rpincipato mediceo

Sul finire del XVI secolo l’esempio venne dal granduca Francesco. Fu noto per i disordi incredibili della sua tavola. Egli , passò alla storia per un celebre manipolatore dei veleni, oltre che per un mangiatore eccezionale.
La sua morte che avenne il 19 nottobre del 1587 , è da alcuni storici attribuita ad un avvelamento .
Ma ancora vi sono pareri dscordati sul fatto, se fosse stato lui tesso ad avvelenarsi, oppure se fosse stato avvelenato, da terzi.
Ma francesco, nn fu il solo ghiottone di quest’epoca, perss’a poco , l’usanza di imitare gli antichi romani nei disordini del mangiare, era una cosa diffusa.

Altra curiosità sulle usanze fiorentine, è conoscere come i fiorentini passavano le loro estati , che anche allora dovevano essere più opprimenti di adesso, quando i fiorentini erano costretti in anguste e strette vie in una città circondata da alte mure, qaundo Livorno era solo un castello di cattiva fama , e Viareggio un villaggio di pescatori.
La villeggiatura era allora, un privilegio di pochi ricchi, i quali possedevano sui colli fiorentini grandiose ville.
I fiorentini in gran parte passavano le estati all’ombra del cupolone, ,qaundo si intende Brunelleschi ebbe risolto l’arduo problema di come costruire la cupola del duomo.
Firenze durante l’estate mutava consuetudini di vita, se durante le altre stagioni di notte era deserta e avvolta nel silenzio, durante il caldo era animata e le sue vie, le sue piazze popolate da una folla gaia e runorosa

Leggenda vuole ceh eprsino il “divino poeta” nn disdegansse di apssar qualche ora a frescheggiare su un blocco marmoreo , che si vede murato in un angolo che fiancheggia l’attuale via dello studio, e che porta scritta un incisione “ Sasso di Dante”

Era un sasso, che si dice destinato alla fabbricazione di qualcosa di specifico, ma che poi nn lo si volle adoperare in onore al “ghibbelin fuggiasco” , altri invece sostengono che fu conservato nn in memoria di Dante ma in memoria dei tre canti da lui scritti… Fa quasi una sensazione strana inspiegabile passare epr quella via, toccare con mano quel sasso, e pensare che tanto tempo fa su quel sasso vi era seduto l’autore di una delle più belle e dolorose, e faticose e vere frasi mai sentite: “amore che nulla ha amato amor perdona” ……
Meta preferita dei fiorentini per la passeggita serale, era piazza di Santa liberata. Merita qui ricordare la parola dello storico : Francesco Doni il quale nei suoi “DIALOGHI” , così illustrò la vita fiorentina

“ In Napoli i Signori hanno per usanza di cavalcare e pigliare la sera il fresco quando i caldi assaltano. In roma si stanno per le fresche vie e per le posticce fontane a ricriarsi. A Venezia pulitissima barca sen vanno per i canali freschi , per le salate onde fuori città, con musicanti, donne e altri paiceri; pigliando aere da scacciare il caldo che il giorno eglino hanno preso. Ma sopra a tutti gli altri feschi e sopra tutti i piaceri mi par vedere i fiorentini se lo piglino maggiore; questo è ceh eglino hanno in piazza di Santa Liberata , posta nel mezzo fra il tempio antico Marte, ora San Giovanni, e il Duomo mirabile, modermo, Hanno dico alcune scale di marmo , e l’ultimo scalino ha il piano grande sopra dei quali si posa la gioventù in quegli estremi caldi, sempre vi tira un vento freschissimo e una suavissima aurea, e per se, i candidi marmi, tengono il fresco ordinatamente. Ora quivi io v’ho di grandissimi piaceri. Perché..ascolto e veggo tutti i lor fatti e ragionamenti , e perché son tutti ingegni elevati ed acuti , sempre han mille cose belle da dire. Novelle stratagemmi , favole; ragionano d’abbattimento d’Istorie, di burle, di natte , (!) fattesi l’una all’altra le donne e gli uomini parole ; nobili , degne e gentili. Si poteva stare giornate ad ascoltare quei dialoghi , spesso fatti di serenate, nn udii mai uan aprola che nn fosse onestissima e civile , ed era un gran pregio di tanta gioventù non udir mai altro che virtuosi ragionamenti. E pensare che allora nn vi era nemmeno l’istruzione obbligatoria.

Continua la dolce descrizione, di Francesco Doni, delle serate fiorentine, “ Fte conto , ceh io ci abbia a venire ognis era a questi marmi, oh che fresco , oh che vento mirabile! Io nn credo che in tutta Italia sia il più dolce passatempo di qeusto. Qui ci vien musici , qua poeti , qua matti , qua ragionammo savi , qui si dice dè gabetti, ci si contan novelle, si dà la balia a chi la tiene e si dice tutte le nuove del mondo. Mercato nuovo è un baia, il tetto de pisani l’ho per uan novella. Per un sogno la pancaccia del Proconsolo e il girar del coro , a petto ai marmi rimane a piedi”

Queste che cita il Doni erano tutte località dove si facevano le riunioni. Un altyro ritrovo serale assai frequentato, era il Canto degli Aranci, così chiamato dal giardino degli aranci dei signori Fabbrini , ricco di tali alberi odorosi.
Il girar del coro è una llusione che los torico fa alle cocchiate. Anche qeusto un intrattenimento notturno dell’estate, consistente in cocchi o carri addobbati e illuminati, sui quali prendevan posto cantori, musici che andavan girando per la città soffermandosi ai canti delle vie o in prossimità delle logge
Il posto però che aveva una tappa d’oobligo restava sempre l’attuale piazza del duomo, dove i fiorentini, prima della costruzione della basilica, si dilettavano a fare supposizioni e ipotesi su come la capella e la cupola sarebbero state costruite, vi si recavano abitualmente per vedere a che punto fossro i lavori e come procedessero, quasi, quell’opera, fosse una cosa loro, una cosa di cui sentivano di farne parte.

Si dice anche che, una volta costruito, i fiorentini stesssero a ore a naso all’insù a vedere la belezza e l’imponenza della cattedrale e della sua cupola. Pensare che oggi, di quel marmo bianco e grigio dic arrara resta solo il tono di grigio, il bianco è stato tinto dal gas di scarico degli automezzi che hanno circolato attorno alla piazza. Dal lato della cattedrale, che da sul lato di via cerretani, hanno costruito un obbrobriosa specie sdi sera con tanto di gronde, e se si passa di lì si vede la gente alzare lo sguardo riababsarlo consenso di disgusto e chiedersi a bassa voce, “ma cosa è un cosa provvisoria, o hanno voluto con un impronta moderna di protezione, rovinare anche l’opera del duomo, che tanto sacrificio a chi la costruiì, e tanta gioia ha dato ai fiorentini ceh ne hanno visto, passo passo la sua nascita? “ …..

Per i nobili, invece è noto assieme ai ricchi, avevano a disposizione le logge dei loro palazzi per raccogliervisi in occasioni di avvenimenti solenni , e nelle esteti per starvi a conversare
Vi fu un periodo , nel quale si erigevano qua e là dei palchi sui quali prendevano posto i suonatori, cantanti e poeti improvvisati
Basti dire che uno degli improvvisatori più acclamati della fine del 400 fu il Segretario della Repubblica messer : Bernardo Accolti, Lorenzo il Magnifico si dilettava egli pure a sfide poetiche , nn disdegnadosi di misurarsi con un campione del popolo minuto , soprannominato il Cardiere, onorandolo della sua amicizia ed ammettendolo , spesso, alle feste ed ai convitti che dava nel suo palazzo
V’era persino una società di letterati . A qeusti il papa Leone X accordò la facoltà di dare il titolo di poeta a chi lo meritasse, conorandolo in pubblico. ( bravura nn dettata, sempre, da un pezzo di carta preso a scuola , ma anche da doti naturali accresciute e cullate nel tempo)
Ecco dunque come passavano el loro estati i fiorentini del buon tempo, quando come dice Dante: “ era sicuro il quaderno e la droga” alludendo all’onesta dei mercanti che nn alteravano i libri e le loro misure.

E’ verò, però, che nn sempre fu così.

La storia registra, anche per Firenze, anni tristi, nei quali star fuori di notte era pericoloso. Il bando di Alessandro de Medici che proibiva ai fiorentini di passeggiar per le vie dopo il coprifuoco, con il rischio della vita, culmina in un periodo di fosca tirannide e di orrori.
Ma durò poco e il buon costume di frescheggiare, qua e là riprese il sopravvento per durare quasi fino alla metà del secolo scorso, finchè nn vennero di moda, epr divenire poi necessità, della vita borghese, i bagni di mare e le villeggiature.
Tant’è vero che nn molti anni addietro v’era ancora chi ricordava le panche che tutte le sere venivano regolarmente collocate presso le spalette del ponte A Santa Trinita e sulle quali, pagando un modesto quattrino, si poteva prender posto per godervi il fresco. Ma più che le panche si ricordava l’ometto faceto che esercitava l’onesto e poco lucroso mestiere del pancaro.
Costui era un certo Mani, uno di quegli autentici fiorentini dei quali ormai si è perduta la stampa; spesso si dilettava in frizzi, che erano immocenti battute di sapore politico contro il governo granducale.
Erano i tempi invidiabili, e per noi inverosimili nei quali il pane costava due quattrini alla libbra , e un fiasco di vino d’uva lo si poteva avere per una crazia. Chi guadagnava una giornata di due paoli , se la passava discretamente ; chi arrivava a mettere insieme cinque paoli era addirittura un signorino.

Ma al Manì, e chi sa a quanti altri dei suoi contemporanei, quelli parevano tempi economicamente disastrosi; sicchè nn mancava mai, di attirar il pubblico col suo ritornello “ Signori , e c’è il pan caro!” E siccome pareva pizzicasse un poco di poesia , quando era sicura di nn essere orecchiato dai Birri, canticchiava


“Gli è rincarato il vino,
Gli è rincarato il pane
Questo figloiol d’un cane
Nn se ne vuole andare”
Il figliol d’un cane era ….Canapone
Il toscano Morfeo
Che tenne , lemme,
Recinto di papaveri e lattuga,
Per la sau smania
D’eternarsi , asciuga
Tasche e maremme,

Il mani, era spesso, preso di mira , la gente si divertiva a fargli raccontare le sue infelicità coniugali avendo a quanto apre, una moglie di carattere bisbetico.
Quando venne la moda dei manicotti anch’essa aspirava a possederne uno. Per conseguire l’intento andava raggrannellando soldo a soldo pochi risparmi conservandoli gelosamente in un rispostiglio.
Un giorno il Mani riuscì a mettere le mani sul gruzzolo e, senza tanti complimenti , se n’andò all’osteria dove, manco a dirlo , se lo bevve in tante mazzette.
Rincasando alla sera , briaco a sufficienza trovò l’amara metà su tutte le furie. Ci fu un casino del diavolo di urla, di improperi, di lacrime.
Accorsero i castigliani , i passanti, e chiariti della ragione di quel putiferio, qualcuno rivolse parole di biasimo al marito, rimproverandogli la mala azione .
Ma questi senza scomporsi, facendo  anche più del consueto pel vino bevuto, rivolto agli astanti, disse loro:
“ Vu’ mi parete un branco d’imbecilli! Oh la un voleva immani-cotto? Più cotto di così i Mani la un l’ho potea avere!!”

( tratto da : Firenze attraverso i secoli  di Otello Masini)

sabato 13 dicembre 2014

Le armeggerie del 12 febbraio 1386


Era il febbraio del 1386 il freddo ancora pungente dette un po' di tregua nei giorni della candelora ,
in cui secondo il detto popolare se piove o gragnola saremo fuori dall'inverno.
Ma aimè dopo pochi giorni iniziò a nevicare forti e seguì per diversi giorni .
Era il tempo del carnevale e così i fiorentini pensarono a trarre profitto e a divertirsi.
La neve fu utile come svago agli sbarazzini, ma molestò non poco le persone per bene, che provando a uscir fuori si ritrovarono bersaglio di palle di neve, che se per caso finivano nel collo si scioglievano colando giù per la schiena e provocando intensi brividi.
La città era in mano a questi scapestrati che facevano un baccano del diavolo , andavano correndo urlando e ridendo , quasi come se non cadesse dal cielo la neve , ma venissero giù zecchini d'oro.
In ogni piazza c'era un'omino di neve, tutta la città fu per giorni come trasformata .
A quei tempi ogni età era vissuta godendo a pieno di cosa offriva, non c'era desiderio di crescere prima del tempo, i giovani non pretendevano a vent'anni di esser più saggi e più bravi dei loro vecchi.
I giovani facevano i giovani : studiavano imparavano, se era possibile ciò che è più di studiare, pensavano a divertirsi, a vivere la vita senza pensieri, e senza preoccupazioni, ci sarebbe stato tempo per diventare vecchi e brontoloni e noiosi.
sarebbe venuto da solo il tempo dei pensieri e dei doveri, di occuparsi di cose serie e mettere testa quadrata per gli affari.
Si diceva allora," ogni cosa a tempo debito", ed il miglior tempo è sempre quello che passa e che non torna più .
Altri erano gli ideali e i valori, a quel tempo i giovani seguivano i consigli dei vecchi facevano tesoro della loro saggezza ed esperienza, e pensavano a vivere la gioventù, ma nei momenti difficili e pericolosi erano i primi che, guidati dal generoso istinto giovanile, accorrevano e combattevano e morivano per l'ideale della patria.
Passato il momento del bisogno, chi di loro rimaneva vivo ritornava a divertirsi e pareva nona vesserò mai fatto altro.
In quel febbraio del 1386. di neve e carnevale, sei giovani fra i quali spiccavano anche nomi importanti, come un giovane della famiglia degli Acciaoioli, si vestirono di drappo bianco, calze e cappucci, per festeggiare il carnevale
Quella brigata bastò a ravvivare la città , e a far innamorare qualche donzella.
Allora si usava onorare la dama andando sotto le sue finestre di notte, per cantar liete canzoni d'amore accomapgnandosi con il suono delle tiorbe e dei liuti; e le fanciulle stavano nascoste dietro le finestre , ascoltavano commosse i dolci canti, che dagli orecchi andavano dritti al cuore.
Fu un lieto e gaio carnevale quello che si svolse in quel febbraio innevato, e quei giovani nonostante la neve venisse giù fitta e copiosa, continuarono a percorrere la città allietandola di canti e improvvisando danze.
Ma le armeggerie vere furono gli spettacoli fatti a cavallo, dove gioiste e giochi venivano fatti sotto le case delle dame prescelte dai cavalieri, ed esse per tanto onore divenivano una specie di celebrità.
Erano spettacoli fieri e gentili, dove destrezza e abilità guidavano i giochi e le giostre.
Il popolo andava matto per quei divertimenti e faceva folla dietro a quelle comitive eleganti nei loro costumi carnevaleschi ; il suono degli strumenti, il canto delle romanze, rendevano queste feste poetiche artistiche ed eleganti.
Ma come sempre non erano tutte rose quelle fiorivano,.
Succedeva, non di rado, che gli armeggiatori venissero ripagati con risa, lazzi spiritosi e pungenti, se non fischiati, quando l'armeggiatore nel buttar la lancia per aria, non faceva in tempo a riprenderla, oppure se per poca destrezza o per uno scarto del cavallo cascava per terra.
Non meno tremendo era il baccano e le risate, se a qualche povero diavolo, che offrendo il suo canto ed il suo cuore alla donzella a cui si era appassionata, da lei venivano gli venivano chiuse le finestre ..
Il povero menestrello oltre al rifiuto della fanciulla doveva subire lo scherno della folla, per giunta sotto gli occhi di colei cha amava e che sdegnosa aveva volto altrove lo sguardo.
La neve assieme alla grazia di quei sei giovani vestiti con drappi e cappucci, rese il carnevale del 1386 tra i più gai che Firenze ricordasse, anche se in certi momenti la gentilezza e la fierezza degli armeggiatori poteva essere coperta dalla maleducazione e dallo scherno popolare.

(liberamente tratto dal testo " fatti e aneddoti di storia fiorentina" autore Giuseppe conti )

lunedì 29 settembre 2014

La leggenda di Fonte lucente



In tempi antichi nel territorio dove in seguito sorsero, Firenze e Fiesole, c’era solo qualche capanna di pastori e cacciatori circondate da prati e fitte boscaglie.

Si racconta che di quei tempi il colle di Fiesole fosse abitato dalle fate, creature potenti aventi il dominio sulll’intero territorio ; a capo del regno vi era una regina, avente un particolare compito: istruire e sorvegliare le altre fate in modo che restassero vergine e pure come ordinava la legge .

Un giorno un cacciatore , di nome Mugnone, passando per la foresta, incontrò una giovane fata intenta a lavare nel torrente il suo mantello

Era talmente bella che il giovane se ne innamorò.

La fanciulla spiegò al cacciatore che il loro era un amore impossibile, che sarebbe ad entrambi costato la vita.

Ma fu inutile i due ragazzi presi l’uno dall’altra consumarono la loro passione ed il loro amore incontrandosi ogni volta nel punto dove si erano conosciuti .

Fu così che un brutto giorno, proprio in riva a quel torrente li sorprese la regina, la fanciulla vide la sua figura specchiata nelle acque del torrente e svenne fra le braccia dell’amato, e subito dopo le frecce reali lo trafissero insieme alla sua amata.

Mugnone con le ultime forze andò al torrente ad attingere un po’ d’acqua provando così a rianimare la fata oramai esanime, ma aimè cadde morente e il sangue si perse fra l’erba e i sassi portandosi via anche la sua vita

La fanciulla ,oramai senza vita, teneva la mano protesa verso quella del ragazzo, fu qui che la Regina delle fate si impietosì, e fece in modo che l’acqua del torrente conservasse la vita del cacciatore ed il torrente prendesse il nome di Mugnone.

Del corpo della fata ne fece una bellissima sorgente e la pose a monte del torrente, vicino all’amato, e le donò il nome di Fontelucente…

La madonna del livido




Nella cittadina toscana di Volterra, nei pressi di una chiesa vicina alla “ rampa della crocina”, era situato un antico tabernacolo, dedicato alla “ Madonna “ , intorno alla quale è cresciuta una leggenda

Si racconta di un giocatore, che tornando a casa a tarda notte, dopo aver perso, alla locanda, tutto ciò che possedeva,sopraffatto da un attacco di rabbia, tirò una sassata all'immagine della madonna colpendola nell'occhio.
Stava ancora inveendo bestemmiando , quando con un fragore profondo si aprii, sotto i piedi del sacrilego una voragine incandescente , e il malcapitato venne ingoiato dalla terra fra fumo e fiamme.
A seguito di ciò alla Vergine venne attribuito il nome di Madonna del Livido
La buca, invece, fu denominata: “ Pozzo dell'Inferno” ; si narra che nessuno sia riuscito a misurarne la profondità; il pozzo infernale rimase aperto per sette anni , nonostante la cittadinanza si fosse data da fare nel gettarci : terra, sassi e detriti nel tentativo di riempirla
La buca si richiuse solo quando vi furono gettate le rovine di una chiesa crollata.

Lasino cha volava

In epoca medioevali non erano rare le sfide fra comuni limitrofi
Fu per una di queste sfide fra San Miniato ed Empoli ,che gli empolesi assediarono la graziosa cittadina famosa per le sue torri, per poterla assoggettare.
Ma aimè l’impresa si rivelò più difficile del previsto
I sanminiatesi , si difesero dall’attacco mettendo in atto un forte e decisa resistenza , favorita dalla felice posizione della cittadina toscana.
Dopo che gli empolesi capirono che ogni sforzo si era rivelato vano, ricorsero alle minacce, trasmesse tramite un ambasciatore, ma i cittadini di San Miniato non si fecero intimorire, anzi risposero che prima della loro resa si sarebbero visti gli asini volare.
A questo punto come ben si capisce gli empolesi non sapevano più come fare, la cittadina non voleva arrendersi, fu allora che si fece avanti un contadino , il quale si offrì di dare in mano agli empolesi la cittadina , se gli avessero fornito: mille capre , mille fiaccole e l’esercito pronto per quella notte.
I comandanti non dettero subito ascolto al bifolco, ma in seguito pensarono che valeva la pena tentare e accordarono al contadino quanto chiesto.
Quando tutto era pronto e si fece buio , il contadino fece accendere le fiaccole sulle corna della capre ordinando ai pastori di spingerle attraverso la collina verso le mura della rocca di San Miniato, mentre dietro avanzavano i soldati con altrettante torce, trombe e tamburi che procuravano un gran baccano
Quando i difensori delle mura videro il buio illuminato a giorno, e sentirono tutto quel baccano, credettero che un esercito enorme li stesse assalendo , così gettarono le armi e fuggirono per la campagna
A questo punto gli empolesi con facilità si impadronirono delle mura rimaste indifese e conquistarono la città.

Da allora fino al 1860 nella festività del Corpus Domini , per ricordare la sfida dei saminiatesi e la vittoria degli empolesi , si decise di far volare con argani e carrucole , un ciuco con le ali, dal campanile della collegiata fino ad una colonna del palazzo ghibellino , sito nella sottostante piazza Farinata degli Uberti
L’usanza è poi decaduta , ma le ali del ciuco e l’imbracatura sono rimasti come testimonianza storica e sono visibili nel museo della Collegiata
La vicenda ebbe il suo cantore in Ippolito Neri, che la narrò nel poema :” la presa di San Miniato" .

Ne riporto alcune strofe

“ E l’asin prima spiegheranno l’ali
per la strada del Ciel veloci e presti,
che a questa sempre a noi nemica setta
la nostra alma Città resti soggetta”

Come sempre, come da che l’uomo ha fatto la sua comparsa su questa terra non ha mai perso occasione per mettere in luce la sua crudeltà efferata verso gli esseri più deboli e fragili

I particolari dell’usanza che prese vita dopo che gli empolesi conquistarono la città di San Miniato sono a dir poco malvagi.

L’asino era piccolo, da latte, il primo tratto della discesa era veloce, per rallentare poi alla prima curva , l’asino per lo spavento benediceva la folla sottostante che riempiva la piazza (chissà perché quando si tratta di assistere a spettacoli crudeli la gente accorre numerosa, e poi si dice scioccata) , per poi morire quando quando finiva contro la colonna del palazzo.
Non era raro che tutto questo contesto, in cui la folla era con lo sguardo fisso sul volo della bestia, e intenta a pulirsi la benedizione, desse modo ai ladruncoli di alleggerire le tasche degli spettatori ebeti.

 e avevan già sopra, quell’erte scale,
tutto di vaghi fiori e nastri ornato,
fatto salir quel timido animale
e a una doppia carrucola legato,
dove il canape infizano e lungh’ale
annestano a quel tergo delicato,
e alla fine, con grand’urla e gran fracasso,
volar lo fan , come un uccello , a basso.

E questa festa in sì degna di memoria,
pel Corpusdomin si rinnova ogn’anno,
per contrassegno della gran vittoria,
con obbligare ancora quei che verranno.
Ma qui termina il fil della mia storia,
dove persi, cred’io, sapone e ranno:
né meglio mai , poteva il mio cantare
che col volo d’un Asin terminare "

I Capassassini

Ai tempi dei nostri avi, esistevano i briganti, quelli che solitamente erano apostati dietro i cespugli per assalire i poveri viandanti.
Ma normalmente tali briganti facevano : i contadini, o i boscaioli o altri mestieri.
Erano chiamati i " capassassini" , e si racconta che si riunissero nei boschi nelle notti di luna piena.
Questa è una storia che venne raccontata da Narciso Parigi, i briganti portavano sempre il nome di Capissassini, erano briganti che dopo aver derubato le loro vittime le rapivano e bruciavano i loro corpi nel forno. Sono molte le storie che narrano le avventure di questi briganti, si tratta di curiosità astuzie che si ritrovano anche in altre leggende, oltre la Toscana, che hanno come argomento la malavita.

in questa storia, si racconta che un giorno un pollaiolo , accompagnato dal figlio, partì col suo barroccio da Campi per recarsi ad una fiera.
Imboccata la strada che conduce al passo delle Croci di Calenzano il babbo diede al ragazzo una borsa piena di soldi, perché la nascondesse sotto i vestiti e allorché i Cpassassini fossero arrivati avrebbe dovuto scappare via.
Il ragazzo fece come dettogli dal padre, ed ecco che arrivati nei pressi delle tre Croci videro due figure sinistre,
Ed il babbo disse al figlio : " vai figliolo, corri scappa!! "
Il ragazzo si buttò di sotto dal barroccio e scappò nel bosco.
Appena in tempo ! Infatti i due loschi individui si avvicinarono al barroccio, con i futili puntati e perquisirono l'uomo ,non trovando, però niente presero il barroccio ed il cavallo e tutto il suo contenuto, legarono il pollaiolo e se lo portarono via assieme al resto.
Il ragazzo, intanto era arrivato a una casa sperduta nella boscaglia.
Bussò alla potrà e si trovò davanti una vecchia signora , vedendolo così mal ridotto, coi vestiti strappati e sanguinante per le erige inferte dai rovi, durante la sua corsa, gli domandò cosa gli fosse accaduto, ed il giovane raccontò alla vecchia signora l'accaduto.
La donna lo fece entrare , e gli indicò il posto, dove potersi lavare le ferite, per poi medicarlo coma ceto e olio, e gli disse che una volta rimessosi a posto sarebbero andati dalle guardie per avere aiuto.
Mentre il ragazzo si stava lavando in una stanza dove era sistemato un piccolo lavatoio, sentì da un foro rimasto di un vecchio camino, senti delle voci nella stanza attigua.
Con sua grande meraviglia che poi si fece paura, senti la vecchia dire : " di là c'è il ragazzo che vi è scappato, è lui che ha i quattrini"
E l'uomo rispose fregandosi le mani: " bene , bene , ora ci prendiamo i soldi e poi li facciamo sparire entrambi.
Tu vecchia comincia a scaldare il forno e poi lascia fare a noi"
Il ragazzo capi che fra tutte la case era finito proprio in quella dei Capassassini , guardandosi intorno si accorse che la finestra della stanza dava sul etto, così saltò di sotto e si dette a corsa per il bosco.
Aveva paura , ed era stremato non sapeva dove dirigersi fino a che non trovò una strada , a quel punto allungò il più possibile il passo, giunse ad un paesino e andò a chiedere aiuto alle guardie.
I gendarmi chiamati i riformi, si misero in cammino per cercare la casa.
Trovata la dimora , la circondarono e catturarono i tre Capassini e la vecchia.
Fruga che ti fruga trovarono anche carroccio, il cavallo e il pollaiolo, che era stato imprigionato nella cantina.
Arrivarono appena in tempo, infatti il forno era già pronto: rosso come la brace